Federico Spandonaro: serve una programmazione sanitaria che risponda veramente alla domanda di salute.
Federico Spandonaro, Docente di Economia Sanitaria e Coordinatore scientifico del Rapporto Sanità del CEIS Università di Roma “Tor Vergata”, conduce da molti anni una costante ed attenta analisi del Sistema Sanitario Nazionale e della sua evoluzione. SalutePiù lo ha incontrato per raccogliere il suo parere di economista sulla complessa fase che sta vivendo il nostro sistema sanitario.
Professor Spandonaro da alcuni mesi il tema della sostenibilità del SSN è all’ordine del giorno generando pareri ed ipotesi spesso contraddittori. Lei, come ricercatore e docente di Economia Sanitaria, ci dà un parere oggettivo ? Cosa sta succedendo al conto economico del nostro SSN ?
Al conto economico del Sistema Sanitario Nazionale, in realtà, non sta succedendo praticamente nulla, è il conto economico dell’Italia a doversi misurare con problemi significativi. Dopo dieci anni di stagnazione e di crescita del debito pubblico, con un’evasione fiscale ingente, alla fine ci sono pochi soldi per il SSN. Il problema è quindi da ricercarsi sul versante delle entrate dello Stato che sono insufficienti e non sul valore assoluto della spesa sanitaria italiana, che è inferiore, in termini di percentuale di PIL, ad altri paesi a noi vicini. A questo va aggiunto che in Italia, essendo il 75% della spesa sanitaria coperto dalla spesa pubblica, il problema di un’insufficienza di mezzi finanziari a disposizione dello stato diventa particolarmente grave.
Da più parti, però, si continua a insistere sul fatto che all’interno del SSN esistano ampi margini per recuperi di efficienza e tagli di sprechi ?
Iniziamo con il dire che questi punti di vista non sono supportati da dati oggettivi e che lo stato italiano spende comunque per la salute circa il 20% in meno della media CEE. Poi vi è certamente tanta inefficienza allocativa, ovvero anche tanto razionamento delle risorse: in conclusione, i cosiddetti recuperi, nel caso del Servizio Sanitario Nazionale, dovrebbero essere finalizzati non a ridurre la spesa ma ad un miglioramento della qualità del servizio erogato. Se invece ci nascondiamo dietro l’alibi dei recuperi di efficienza per tagliare ulteriormente la spesa, genereremo un’ulteriore caduta nel livello di servizio reso ai cittadini.
Ma il sistema sanitario pubblico, così fortemente ospedale-centrico ha veramente al suo interno la possibilità di evolvere ?
Guardi, qui non parliamo di “possibilità” ma di “dovere”. Il passaggio da un sistema ospedale-centrico ad uno che privilegi un’assistenza distribuita sul territorio, a parole va bene a tutti, ma pochi si azzardano ad esprimersi chiaramente sul come ciò vada ottenuto. Personalmente, credo che la risposta sia nello sviluppare l’assistenza domiciliare e non tanto forme intermedie di de-ospedalizzazione che possono anche essere utili ma solo in determinati ambiti. Il paziente va seguito presso la sua abitazione e lì si deve sentire sicuro e protetto. Certo, ci vorranno investimenti specifici, anche in tecnologie quali la telemedicina, ma è in questa direzione che il sistema si deve muovere.
Professor Spandonaro, lei coordina per il Ministero della Salute il progetto di ricerca “Rapporti tra pubblico e privato e evoluzione dell’istituto dell’accreditamento in un contesto federalista”. Almeno nel Lazio “pubblico” e “privato” sembrano due mondi a parte: esisterà una modalità per integrarli a beneficio della qualità del servizio reso ai cittadini ?
Iniziamo con il dire che il problema è antico e proviene dal fatto che la riforma del Sistema Sanitario Nazionale del 1992, con la legge 502, è sostanzialmente rimasta al palo. Infatti la 502 introdusse, con la finalità di stimolare la crescita del sistema sia in termini di efficienza che di qualità del servizio, il concetto della “libertà di scelta” da parte del paziente tra le strutture pubbliche e quelle private-accreditate. Quello che poi si è verificato è che, da un lato, il sistema pubblico si è rivelato “protezionista” nei suoi comportamenti, non garantendo le condizioni che avrebbero consentito una reale concorrenza tra le strutture sanitarie e, dall’altro, il sistema del privato-accreditato, molto composito con realtà che vanno dagli equiparati al pubblico, ai non profit, fino alle strutture profit, non è stato controllato a sufficienza. Così, in realtà, anche questo è ancora un tema aperto che necessità di essere ripensato nell’ottica dell’innalzamento del livello di servizio offerto al paziente.
Esiste un’Italia fatta di piccoli paesi e di ruralità a cui mi sembra si pensi poco. Come è possibile avvicinare i servizi sanitari a questi cittadini ?
Sfatiamo l’illusoria pretesa che si possa avere un centro di eccellenza in ogni paese, perché una struttura con una casistica ridotta non può essere, per definizione, un centro di eccellenza. Viceversa, però, le persone si devono spostare solo se ce n’è reale bisogno, si devono sentire protette là dove si trovano. Altrimenti, salgono i macchina e vanno al pronto soccorso, con gli esiti ed i costi che tutti conosciamo. Da economista sanitario, io rilevo un grave problema nel modo in cui facciamo la programmazione sanitaria in Italia: infatti, per noi la programmazione ha una visione ristretta focalizzata sulla gestione della offerta, ovvero delle strutture di erogazione. Cioè noi programmiamo quanti posti letto servono, quante prestazioni di un certo tipo dobbiamo erogare. Non ci chiediamo qual’è la domanda di servizi sanitari che la popolazione esprime, a seconda delle proprie esigenze ed anche di dove risiede. Da anni assisto ad un dibattito mai risolto tra chi sostiene la necessità della “presa in carico” del paziente, il quale deve essere guidato in ogni sua scelta e chi, all’opposto, sostiene “l’empowerment” del paziente, cioè che sia quest’ultimo a scegliere, almeno in una certa misura, il suo percorso nell’attuare il suo diritto alla salute. Questa “miopia” nella nostra programmazione sanitaria, però, non la rilevo solo io: sono anni che l’Organizzazione Mondiale per la Sanità dice che il sistema sanitario italiano manca di “responsiveness”, cioè della capacità di adeguarsi e rispondere alla domanda, alle esigenze, degli individui. Il punto è tutto qui: il Sistema Sanitario Nazionale deve imparare a rispondere alla domanda dei cittadini e dei territori e non a generare offerta di prestazioni secondo modelli predeterminati.
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