Prostata: nuove frontiere per la chirurgia
Un rivoluzionario intervento chirurgico sperimentato con successo all’ospedale Santissima Annunziata da un’equipe guidata dal professor Riccardo Bartoletti, urologo dell’Ateneo fiorentino che opera nella struttura dell’Azienda sanitaria di Firenze, affiancato dal dottor Nicola Mondaini, ha consentito di impiantare su un paziente una “protesi peniena” contemporaneamente alla prostatectomia radicale extraperitoneale: in altre parole mentre è stato asportato il tumore che aveva aggredito in maniera estesa la prostata – la ghiandola capace di produrre ed emettere il liquido seminale – di un uomo di 60 anni, gli sono stati impiantati un serbatoio, una pompetta e due cilindri in silicone rivestiti da uno strato antibiotico che fanno da corpo cavernoso in grado di permettere all’uomo di avere erezioni e una vita sessuale normale. E tutto questo in laparoscopia, con appena 5 forellini addominali, necessari anche solo per l’intervento base alla prostata, ed uno a livello dello scroto, che a 28 giorni dall’intervento non mostrano nemmeno una cicatrice.
Il secondo tumore più diffuso
Il risultato è particolarmente importante anche in funzione del fatto che il tumore della prostata, insieme a quello del polmone, è il tumore più frequente nell’uomo. Sono infatti circa 45 mila pazienti a cui ogni anno viene diagnosticato un tumore alla prostata. A circa 10 mila di essi viene oggi consigliato di sottoporsi a un intervento chirurgico che già da molto tempo garantisce nel 90 % dei casi aspettative di vita superiori ai 10 anni. I buoni risultati oncologici dell’intervento eseguibile a cielo aperto, in laparoscopia o tramite robot, si sovrappongono a quelli funzionali relativi alla continenza urinaria e al recupero della funzionalità sessuale.
Al 50% circa di quanti si sottopongono alla prostatectomia, mediante le tecniche “nerve sparing” si riesce a conservare i fasci nervosi essenziali per il meccanismo dell’erezione, la quale può essere ripristinata con l’utilizzo di appropriati farmaci nel 60-70% dei pazienti più giovani e senza altre patologie come il diabete o l’ipertensione. Ma laddove la malattia è più estesa e non é possibile risparmiare i nervi durante l’intervento chirurgico si ricorre all’iniezione di un farmaco direttamente a livello penieno per garantire l’erezione. Metodica spesso dolorosa, tanto che viene abbandonata dal 90% dei pazienti già dopo 1 mese.
È proprio per questi pazienti o per quelli che non rispondono alla terapia farmacologica che l’unica soluzione rimane quella dell’impianto di una protesi. In Italia se ne collocano circa 400 all’anno, negli Stati Uniti oltre 20 mila. Ma finora, appunto, tanto qui quanto là, dovevano passare almeno un paio d’anni prima che si potesse tentare di rifare l’amore e recuperare un aspetto tanto fondamentale della vita umana.
Un’operazione giudicata impraticabile
Il buon risultato dell’operazione, finora giudicata difficilmente praticabile e densa di controindicazioni, ha indotto gli urologi fiorentini a ripeterla su due pazienti più giovani e a programmarne altre 2 nelle prossime settimane. A un mese circa dagli interventi, due dei tre pazienti erano completamente continenti e in grado di avere una sessualità come prima dell’operazione, e solo uno è ancora sotto controllo dei medici in attesa della completa guarigione.
«L’assoluta novità dell’intervento – dice il professor Riccardo Bartoletti dell’Università di Firenze – è data dalla simultaneità dell’asportazione del tumore con l’impianto di tutte le componenti della protesi che agisce meccanicamente proprio come una pompa idraulica. Finora infatti nel 50% dei casi di prostatectomia in cui non è possibile conservare i fasci nervosi essenziali per il meccanismo dell’erezione, una protesi peniena veniva impiantata solo dopo 2-3 anni dalla rimozione del tumore, limitando solo in qualche caso la sistemazione in contemporanea del serbatoio nell’addome vicino alla vescica. La rinuncia ad un intervento unico che affrontasse in una sola soluzione tutte le problematiche era motivata principalmente dall’estrema sofisticazione della metodica e dal forte rischio di complicazioni infettive che avrebbe reso necessario rimuovere la protesi peniena». Ma 2 o 3 anni di astinenza non solo possono essere causa di forte distress nella coppia, rendono anche il completamento dell’intervento ricostruttivo spesso non soddisfacente perché in quell’arco di tempo, per fenomeni di fibrosi, il pene può accorciarsi ed il collegamento tra serbatoio, pompa e cilindri gonfiabili risultare più complicato.
«È una metodica – dice ancora il professor Bartoletti – compatibile anche con le successive radioterapie, ormonoterapie, chemioterapie a cui i pazienti potrebbero andare incontro». La nuova metodica messa a punto presso l’Ospedale di Ponte a Niccheri – che a fine settembre verrà presentata alla comunità scientifica mondiale durante il Congresso della Società di andrologia in programma proprio a Firenze –, apre scenari importanti per la qualità di vita dei pazienti e delle loro partner anche in quelle situazioni dove finora si pensava solo alla componente strettamente oncologica data l’estensione del carcinoma.
La qualità di vita del paziente
«La metodica chirurgica sperimentata all’Annunziata – spiega la dottoressa Lucia Caligiani, direttore della struttura di psico-oncologia dell’Asl fiorentina – apre sicuramente nuove interessanti prospettive al miglioramento della qualità di vita percepita dal paziente e da chi gli è affettivamente legato. In entrambi, come avviene per tutti i tumori e in particolare quelli alla mammella o all’utero, la malattia oncologica tende a generare un senso di “impotenza psicologica”, uno scollamento tra corpo e mente che va affrontato prestando attenzione e ascolto all’intero ciclo biografico del paziente e di chi gli sta accanto, di modo che l’individuo possa accettare ed integrare anche questa esperienza dolorosa nel proprio percorso di vita. È il modo anche per evitare l’illusione che siano sufficienti i bisturi a risolvere tutto o che con essi si possa l’impossibile, anche quello che l’età non consente più».
«Il nuovo tipo di intervento – spiega il dottor Nicola Mondaini – potrebbe in futuro anche comportare consistenti risparmi economici: innanzitutto perché riduce il passaggio in sala operatoria ad una sola volta anziché due come prima, benché dilazionate nel tempo. E poi perché può comportare una riduzione sia del ricorso a terapie mediche-iniettive funzionali all’erezione estremamente costose e sia dell’utilizzo di psicofarmaci utili ad affrontare la lunga fase di impotenza a cui finora andavano incontro soprattutto i pazienti più giovani».